Cosa sono le reti alimentari alternative

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 Le reti alimentari alternative nella letteratura scientifica

L’affermarsi delle diverse forme di filiera corta ha suggerito agli studiosi diverse definizioni tra cui “alternative”, “locali”, “civiche”, “sostenibili”, “nuove”, “brevi” (Murdoch et al., 2000; Renting et al., 2003).
In Italia vengono tutte chiamate comunemente con il nome di “filiera corta”. In generale la letteratura sull’argomento mette in evidenza come si tratti di un approccio alla filiera agroalimentare basato su una metrica nuova: non più quella della produzione di massa, ma quella dello sviluppo sostenibile e della multifunzionalità , in cui le attività produttive tornano a rapportarsi con le risorse – umane, sociali, ambientali, culturali, istituzionali – dei territori.
Riscaldamento-globale_JsL’aspetto centrale è dato dalla volontà di ri-spazializzare, ri-socializzare ma soprattutto ri-localizzare il cibo attraverso relazioni dirette, credibili e autentiche che si creano tra produttori, consumatori e cibo.

Riferimenti:
http://www.bancoalimentare.it/

http://www.lastminutemarket.it/

http://freegan.info/

Tale nuovo sistema ha la caratteristica di attribuire al cibo un valore addizionale rispetto a quello di bene alimentare. Un valore che incorpora anche quello di identificazione con il territorio, migliori relazioni sociali, riduzione dell’inquinamento e solidarietà nei confronti dei piccoli produttori. Aspetti che vanno ad abbracciare anche considerazioni politiche .
Dal punto di vista economico, alle filiere corte viene riconosciuto il merito di redistribuire il potere contrattuale lungo la filiera, in particolare verso i piccoli produttori agricoli i quali hanno la possibilità di riposizionarsi rispetto ai processi di globalizzazione del sistema agroalimentare.
La ri-localizzazione emerge come processo per contrastare la compressione dei prezzi sfruttando alcuni meccanismi per riottenere potere contrattuale: l’aumento del valore aggiunto per unità di prodotto, la diversificazione dei canali di vendita a livello territoriale e la riorganizzazione dei processi produttivi sulla base della valorizzazione delle risorse interne (van der Ploeg, 2003).
In seno alle iniziative di filiera corta, inoltre, si è animato sempre più il sul prezzo giusto dei prodotti agricoli, che non deve solo integrare costi tradizionalmente inclusi dall’analisi economica, ma anche valori incorporati nel prodotto e nei servizi, come la conservazione delle risorse naturali, il rispetto per la dignità dei lavoratori, conservazione della biodiversità e delle conoscenze tradizionali, etc.

Il concetto di località

Riguardo alla diffusione dei movimenti per il cibo locale, recentemente il dibattito sulle reti alimentari alternative si è focalizzato sulla dimensione territoriale delle filiere corte.
L’IAASTD (2009) ha riconosciuto che il sistema del cibo globale è economicamente insostenibile, ma non tutti sono convinti che la ‘località’ sia la soluzione migliore. La ‘località’ è intesa sia in termini di distanza, ricollegando consumatori e produttori nello stesso luogo, sia in termini di metodi di produzione tradizionali e a basso impatto (Fonte, 2008).
Il movimento per il cibo locale considera il prodotto autoctono intrinsecamene migliore rispetto alla sostenibilità ecologica, alla giustizia sociale, alla democrazia, alla qualità degli alimenti o alla sovranità alimentare.
Alcuni ammoniscono che questa visione può incorrere nella “trappola del locale” (Born e Purcell, 2006), e trascura aspetti come la distribuzione del potere lungo la filiera, allontanandosi dal concetto di ‘buono, pulito e giusto’ 37 (Hinrichs, 2000), oppure trascurare la diversità e il pluralismo culturale (DeLind, 2011). Altri autori richiamano la necessità di condurre una completa analisi delle cause (Allen e Wilson, 2008) o di effettuare una disamina completa sul ciclo di vita delle produzioni. Goodman et al. (2011) invocano invece un approccio più riflessivo ai movimenti per la localizzazione. Sia in termini ambientali che economici, le produzioni locali non sempre sono efficienti, soprattutto in fase di trasporto (Schonhart, 2008) dato che possono addirittura arrivare a inquinare di più (Standage, 2009). Secondo questa linea di pensiero, solo un’analisi del ciclo di vita del cibo può offrire un’accurata valutazione del volume totale delle emissioni di gas serra, per cui la distanza rappresenta un fattore superabile.

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In seguito alle diverse critiche, Holloway et al. (2007) e Seyfang (2006;2009) hanno elaborato degli schemi interpretativi multidimensionali per analizzare le AFN. Holloway ha superato il dualismo tra sistema convenzione e alternativo per soffermarsi sulla natura multidimensionale della relazione tra produttori e consumatori, mentre Seyfang ha elaborato un quadro teorico dove la località è solo una delle cinque dimensioni alla base del consumo sostenibile (sostenibilità ambientale, costruzione di comunità, azione collettiva, costruzione di un nuovo sistema di approvvigionamento alimentare).
Per ‘localizzazione’ Seyfang intende un processo verso una economia locale più auto-sostenibile (l’accorciamento delle catene di offerta, l’acquisto di prodotti locali, il rafforzamento dell’economia locale). La sostenibilità ambientale implica la diminuzione dell’impronta ecologica, la riduzione dell’uso delle risorse, la scelta di prodotti e servizi meno intensivi nell’uso di energia, l’adozione di uno stile di vita sobrio. La “costruzione di comunità” si manifesta nelle reti di sostegno e solidarietà sociale, nella crescente partecipazione e nella condivisione di idee e esperienze, nello scambio gratuito di lavoro e di competenze che rafforzano il carattere inclusivo delle relazioni sociali. L’azione collettiva rende possibile controllare le proprie scelte di consumo, cambiando il contesto e
Lo slogan ‘buono, pulito e giusto’ indica un nuovo concetto di qualità alimentare lanciato da Slow Food (http://www.slowfood.it) nel suo Manifesto. Le tre parole rappresentano gli elementi di riferimento per costruire una via virtuosa che tutti i soggetti della filiera alimentare (da chi produce fino a chi consuma) dovrebbero seguire.
Per esempio per le emissioni di CO2, recenti calcoli della Lincoln University dimostrano come la carbon footprint dell’agnello prodotto in Nuova Zelanda e consumato in Inghilterra sia nettamente inferiore a quella della produzione inglese, anche tenendo conto dei trasporti (Standage, 2009). Secondo i dati pubblicati, il trasporto incide soltanto per l’11% sull’energia consumata nella filiera produzione-consumo, a fronte del 26% delle lavorazioni e del 29% della cottura. le norme sociali.
Infine costruire nuove infrastrutture è necessario per stabilire nuove forme di scambio tra persone e comunità, sulla base dei nuovi valori alla base della cittadinanza ecologica (Salvioni e Fonte, 2013).

 

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Articolo tratto dalla tesi di laurea del Dr. Giacomo Crisci:
“Filiera corta, prezzo giusto e sviluppo sostenibile: il caso
dei Gruppi di Acquisto Solidale a Roma”

Università ROMA TRE – Facoltà di Economia “Federico Caffè” – Anno accademico 2012/2013

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