[corner-ad id=1]La filiera corta - Vantaggi e svantaggi della modernizzazione in agricolturaGià dagli anni 80, nei paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli industrializzati, l’inattesa e vasta disponibilità di cibo standardizzato, importato e spesso già trasformato ha portato le famiglie a repentini cambiamenti di abitudini alimentari e stili di vita (Schmidhuber e Shetty, 2009).

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La modernizzazione ha permesso l’ampia disponibilità di cibo pronto e a basso prezzo. Questo è apparentemente un vantaggio per i consumatori che possono risparmiare tempo e fatica delegando la coltivazione e la preparazione del cibo alle grandi azienda, ma ciò comporta anche alcuni rischi, soprattutto con riguardo alla qualità della dieta. In quegli anni, la diffusione dei supermercati e dei prodotti confezionati, infatti, ha permesso la sostituzione di buona parte delle calorie di origine vegetale con calorie di origine animale (Smil, 2000).

Vedi http://www.agriregionieuropa.univpm.it/dettart.php?id_articolo=524

Questa circostanza è eloquente nell’esperienza di alcune popolazioni delle isole del Pacifico (Naru, Cook, Tonga), in cui lo spostamento dalle diete tradizionali verso quelle a base di cibo trasformato ha indotto gravi conseguenze in termini di obesità, comportando l’abbandono di pratiche agricole tradizionali e conoscenze locali legati alla coltivazione e alla preparazione del cibo (Kirk et al., 2008). In alcuni di questi paesi la percentuale di persone in sovrappeso raggiunge il 92%; mentre quella di obesi oltrepassa l’80% (British Heart Foundation, 2006).

British Heart Foundation Health Promotion Research Group

Il processo di modernizzazione ha dunque avuto dei risultati positivi riducendo la quota di popolazione sotto nutrita, ma ha anche complicato il problema della malnutrizione nel contesto della salute globale. Oggi il numero di sottonutriti si aggira intorno a 870 milioni di persone, (14,9% nei PVS), ma le malattie collegate al sovrappeso e all’obesità sono in costante aumento. La Fao ha evidenziato che questa preoccupazione colpisce oggi il 20% della popolazione mondiale, vale a dire circa 1.400 milioni di persone tra cui 500 milioni sono obese (WHO, 2012).

Obesity e overweight. Fact sheet No. 311. Geneva, Switzerlandon Agriculture document COAG/2010/6. 2008.

Si è così giunti a una paradossale convivenza di sotto nutrizione e obesità in diverse regioni del mondo, come si può vedere dalla figura 1.2. Dal punto di vista ambientale la modernizzazione ha comportato due importanti conseguenze. La prima è riferita al fatto che la selezione di poche varietà ibride per ogni pianta ha comportato la scomparsa di un altissimo numero di altre varietà autoctone e metodi di coltivazione tradizionali. Si stima che per alcuni raccolti, la perdita di biodiversità sia stata anche del 90%. In India, per esempio, le varietà di riso, una delle specie maggiormente coinvolte nel cambiamento, sono passate da 100.000 a 10, e lo stesso è accaduto per gli allevamenti.
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Vandana Shiva (2001) ha reso noto che le razze di maiale commercializzate in tutto il mondo sono oggi ridotte al solo numero di quattro, quando fino a poco tempo fa solamente in Cina erano oltre 40. La perdita di biodiversità si traduce spesso anche in una perdita di fattori nutritivi inducendo gli individui che li consumano a un’alimentazione povera, come risultato del passaggio da diete varie, con molte fonti nutritive a diete basate su uno o pochi cereali.
La modernizzazione dell’agricoltura, inoltre, basandosi sull’utilizzo di componenti chimici, ha impedito lo sviluppo adeguato dei microrganismi benefici del suolo e di altri organismi. Tale processo comporta la perdita totale di fertilità del suolo e la sua capacità di rigenerarsi (Venturini, 2007).
La seconda difficoltà ambientale si riferisce al consistente utilizzo di sostanze chimiche in agricoltura, che provoca l’inquinamento dei suoli e delle falde acquifere, causando problemi sanitari tanto agli agricoltori quanto ai consumatori entrati in contatto con prodotti a elevata tossicità.

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Uno degli scandali che ha reso nota la pericolosità della produzione di componenti chimici in agricoltura (fitofarmaci) fu la tragedia avvenuta la notte del 3 dicembre 1984 a Bophal in India. In seguito a una serie di incidenti tecnici avvenuti in una fabbrica di pesticidi, si sprigionò una nube di fumi tossici che provocò la morte di quasi 4.000 persone e l’avvelenamento di altre migliaia. Da allora non è cambiato molto: in Italia l’ISPRA (2013) ha pubblicato un rapporto sulla presenza di pesticidi nelle acque italiane comunicando che tra il 2009 e il 2010 oltre la metà delle acque superficiali, e quasi un terzo di quelle sotterranee, erano contaminate da pesticidi e fertilizzanti, spesso al di sopra dei limiti di legge compromettendone la potabilità.
Dal punto di vista economico la questione è più complicata. L’improvviso aumento delle rese agricole manifestò la difficoltà di assorbimento da parte del sistema e il conseguente crollo dei prezzi nei mercati internazionali. Risultò così pressoché impossibile rientrare dagli ingenti investimenti iniziali senza aiuti di stato o ulteriori indebitamenti. Ciò indusse un’ulteriore spinta all’acquisto di terra da parte delle grandi aziende agricole e l’abbandono da parte delle piccole imprese familiari, dando luogo alle pressioni sociali di cui sopra. Alla caduta del prezzo si aggiunse anche il problema della dipendenza da numerosi input quali tecnologia, fertilizzanti, sementi geneticamente modificate e combustibili fossili. Progressivamente l‘agricoltura si basò sui prodotti petroliferi, dipendendo quindi dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio. Con l’introduzione di fattori di produzione esterni, che presuppongono il loro impiego secondo la logica del sistema che li ha creati, si è determinata una standardizzazione dei processi produttivi sempre più sganciati dai contesti locali e sempre più dipendenti dalle prescrizioni esterne.
In tal modo è stato circoscritto il lavoro degli agricoltori al ruolo di efficienti produttori agricoli, ed è stato delegato ad altri soggetti il compito di distribuirli. Si è così via via affermata la figura di una sorta di agricoltore “virtuale” (Van der Ploeg, 2003), capace di eseguire correttamente un complesso di operazioni prescritte dall’esterno e trasmesse attraverso un apparato di divulgazione e assistenza tecnica. È opinione condivisa che questo sistema abbia sottratto potere decisionale alle aziende agricole, piccole in particolare (Brunori et al., 2008), e abbia accentrato il potere (e i profitti) nelle mani dei soggetti al centro della filiera: gli intermediari. La progressiva perdita di potere decisionale degli agricoltori ha favorito i soggetti che dominano il mercato a monte e a valle, rispettivamente dal lato degli input e della distribuzione. L’aumento dei costi degli input è stato un importante motivo di sofferenza da parte degli agricoltori ma anche il nuovo meccanismo di distribuzione, necessario a gestire le ingenti derrate prodotte con metodi intensivi, ha contribuito alla compressione dei ricavi. I soggetti (grossisti, intermediari e soprattutto industrie alimentari) che hanno un maggior controllo dell’offerta (anche grazie alla pubblicità) essendo meglio integrate nei canali di commercializzazione, possono esercitare una pressione significativa sulle aziende agricole per comprimere il prezzo. Se si considera l’aumento del costo degli input e la pressione esercitata dai soggetti intermedi alla filiera, per i produttori si verifica una pressione economica insostenibile – definita “squeeze on agriculture– determinata da una costante riduzione del rapporto tra ricavi e costi di produzione (Van der Ploeg, 2003) (figura 1.3).

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Per Van der Ploeg (et al., 2000) lo squeeze si è intensificato a partire dagli anni Ottanta ed è necessario un nuovo paradigma di sviluppo rurale per allentare questa strettoia.
Secondo l’osservazione di Van der Ploeg il paradigma della modernizzazione agricola, che ha ispirato le politiche agricole mondiali degli ultimi anni, non si è rivelato molto ‘razionale’. I motivi principali sono il fatto che riducendo sensibilmente l’occupazione e la ricchezza sociale, la qualità dei prodotti diminuisce e l’ambiente non è in grado di sostenere un simile cambiamento. Ecco perché alcuni identificano questo modello non più come il progresso, ma come il degrado dell’agricoltura.

PLOEG VAN DER JAN DOUWE, Oltre la modernizzazione. Processi di sviluppo rurale in Europa. Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2006, p51.

In virtù delle ingenti derrate prodotte dalle grandi aziende, si è predisposto, infatti, un sistema detto di “filiera lunga”, basato sul ruolo di numerosi intermediari con il compito di distribuire le derrate a livello sempre più locale. Le produzioni vengono acquistate in grande quantità dai grossisti alla produzione che a loro volta li distribuiscono ad altri numerosi intermediari, integrati col territorio o con i mercati internazionali.La filiera corta - Vantaggi e svantaggi della modernizzazione in agricoltura

 

 

Alle estremità della clessidra si trovano i milioni di produttori e consumatori, mentre al centro si riscontra un esiguo numero di intermediari e acquirenti aziendali. Secondo Grievink, il potere è concentrato nel collo di bottiglia, dove 110 intermediari hanno il controllo delle derrate offerte da oltre 3 milioni di produttori .
La filiera corta - Vantaggi e svantaggi della modernizzazione in agricolturaAnalizzando la remunerazione delle aziende agricole, la polverizzazione dell’offerta (in presenza di alti volumi di produzione) e la presenza di pochi compratori, (quali sono le industrie alimentari), è possibile osservare che esse portano all’affermarsi di un regime di oligopsonio

Nel caso della pasta, per esempio, l’AGCM ha accertato che le principali aziende produttrici, per difendersi dagli aumenti del prezzo della semola e della farina del 2007, concordavano incrementi minimi dei prezzi di listino, riuscendo così a trasferire una parte dei costi maggiore di quella che avrebbero potuto trasferire senza restringere la concorrenza. Quest’operazione è stata denominata “cartello della pasta” ed è stata sanzionata per 12 milioni di euro.

in cui la domanda è concentrata in un ristretto numero di operatori mentre l’offerta è frammentata in un numero indefinito di operatori. A tale proposito Pantini (2008) sostiene che queste sono logiche di mercato tipiche delle commodity.

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Dall’indagine conoscitiva condotta dall’AGCM (Tabella 1.1) è emerso che, per il settore dell’ortofrutta in Italia, la catena distributiva comporta in media più di 2,5 intermediazioni tra produzione e consumo finale. In Italia solo il 9% delle filiere si caratterizza per una catena “corta”, il 44% da più di 2 passaggi, mentre il 15% registra la presenza di 4 o 5 intermediari. Secondo Berger (2005) in alcuni casi si arriva anche a 7-8 passaggi. Di conseguenza i prezzi finali oltrepassano del 294% i prezzi alla produzione, generando un ricarico medio che può superare l’80% del prezzo finale.
Le difficoltà del caso italiano non risiedono solo nella presenza di troppe fasi di intermediazione, ma anche nell’inefficiente sistema infrastrutturale, che comporta l’aumento dei costi sostenuti per l’acquisizione di prodotti e servizi offerti da imprese esterne alla filiera agroalimentare: trasporto, logistica, energia, acqua.

Articolo tratto dalla tesi di laurea del Dr. Giacomo Crisci:
Filiera corta, prezzo giusto e sviluppo sostenibile: il caso
dei Gruppi di Acquisto Solidale a Roma

Università ROMA TRE – Facoltà di Economia “Federico Caffè” – Anno accademico 2012/2013

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